GLOSSARIO #ICCV

GLOSSARIO #ICCV

Il Concerto Che Vorrei nasce per comprendere a fondo le esigenze del pubblico, degl* artist* e di chi organizza spettacoli dal vivo, per arrivare a costruire il concerto ideale: un concerto inclusivo, aperto e accessibile.

La musica è un importante collante sociale, e i concerti sono uno dei momenti in cui si celebra il senso di comunione e si consolida l’esperienza di appartenenza a un “tutto” che trascende la nostra individualità. Perché la funzione collettiva dei concerti si esplichi al meglio, è necessario saper riconoscere le differenze e le unicità e rispettarle: è importante che questo accada tra gli individui che compongono il pubblico, coloro che organizzano i concerti, e gl* artist* stess*.

Questo glossario nasce quindi dall’esigenza di fare chiarezza, in ottica collaborativa e partecipata, su alcuni concetti chiave che ci riguardano come individui e come persone che fanno parte della collettività.

Il glossario è stato curato da:

  • Equaly: la prima realtà italiana a occuparsi di uguaglianza di genere nell’industria musicale;

  • UILDM: unione italia lotta alla distrafolia muscolare che promuove l’inclusione sociale delle persone con disabilità;

  • CSV MILANO: Centro servizi per il volontariato che si occupa di promuovere una comunità inclusiva, solidale e sostenibile.

Questo Glossario è un laboratorio aperto permanente.

Ritieni che ci siano nuove parole da inserire?

Inviaci la parola, o le parole, che vorresti integrare e diventa parte attiva del cambiamento!

  • in senso letterale è l’atto di inserire degli elementi in un insieme. Il concetto di inclusione è fondamentale quando si parla di diversità ed è diventato parte del lessico consolidato in area Diversity & Inclusion e Diversity, Equity & Inclusion (DEI) nel discorso e dibattito culturale attuale, italiano e internazionale. In generale si utilizza la parola “inclusione” per definire l’inclusione sociale, cioè quell’insieme di azioni volte a ridurre le disuguaglianze tra gruppi svantaggiati (per provenienza geografica, identità di genere, orientamento sessuale e affettivo, disabilità...) e gruppi avvantaggiati all’interno della società. Il termine “inclusione”, se osservato attentamente, tende a consolidare attraverso il linguaggio un modello culturalmente diffuso di contrapposizione tra “normale” e “diverso”, dove una parte “normale”, forte e socialmente dominante, include e accetta, inglobando a sé, una parte “diversa”, e quindi socialmente subalterna, inferiore. Il termine implica quindi l’esistenza di una relazione di potere fortemente squilibrata, dove il potere di decidere se la parte “diversa” è accettabile e “integrabile” è lasciato solo ed esclusivamente alla parte “normale”. È da usare quindi con consapevolezza e attenzione.

  • il termine è usato nel mondo anglofono ma è utilizzato anche in Italia, particolarmente quando si fa riferimento alla tutela e alla valorizzazione delle diversità in ambito risorse umane, nelle aziende e negli ambienti di lavoro, così come nella società. Spesso è affiancato a “inclusion” nelle espressioni “Diversity & Inclusion” e “Diversity, Equity & Inclusion” (DEI). Utilizzato all’interno di queste espressioni, la parola indica, da parte di aziende, datori di lavoro e ambienti sociali, un approccio caratterizzato dal riconoscimento delle diversità e dall’apertura rispetto a queste.

  • Con questa parola si indicano alcune dimensioni di particolarità di un individuo, spesso relativamente ad abilità e disabilità, ad appartenenza etnica, religiosa, linguistica, sociale a identità di genere, a orientamento sessuale e affettivo. Se il termine “diversità” è in sé ideologicamente neutro, è vero però che finisce per disegnare una mappa di ciò che rispetto a queste dimensioni è “normale” e ciò che si discosta da questa “norma”. Per esempio, si parla di “diversità” in termini di identità di genere quando ci si riferisce a persone non cisgender (dove la “norma” è costituita dall’identità di genere cisgender).

  • Termine che indica il diritto delle persone, e nello specifico di alcuni gruppi di persone, in genere discriminate per alcune loro caratteristiche come il genere, l’etnia, il credo religioso, la disabilità, di essere trattate in modo equo e giusto, indipendentemente da queste caratteristiche. Spesso si usa equality nell’espressione gender equality, per identificare la richiesta e la rivendicazione di equo trattamento delle donne rispetto alle donne, particolarmente sul luogo di lavoro. Equality viene usato come termine comune nel linguaggio inglese per indicare in generale le rivendicazioni di equo trattamento (che preveda parità a livello legale, rispetto a livello umano...) anche da parte di altri gruppi sociali, discriminati per orientamento sessuale e affettivo o per età o per altri tratti. In italiano si può tradurre con la parola “uguaglianza”, intendendo con questa sia l’uguaglianza in termini di diritti e tutele normative, sia l’uguaglianza come dignità e rispetto umani.

  • Parte della locuzione diffusa in campo aziendale “Diversity, Equity and Inclusion”, il termine inglese, traducibile in italiano con “equità” o “parità”, fa riferimento al diritto delle persone di essere trattate in modo equo e corretto. Spesso viene usato facendo riferimento al mondo lavorativo e alla rivendicazione di trattamenti equi sul luogo di lavoro: per esempio può essere utilizzato per indicare la necessità di parità di trattamento economico tra uomini e donne.

  • Si parla di intersezionalità quando, all’interno di un insieme di persone che subiscono discriminazione sulla base di un criterio, sussistono altri tipi di discriminazione trasversali. Per esempio, è possibile che individui che subiscono discriminazione per via del proprio orientamento sessuale e affettivo siano anche discriminati per via del proprio credo religioso. Nell’evolversi storico e culturale della società e delle rivendicazioni sociali, tutti i movimenti che richiedono maggiore riconoscimento dei propri diritti sono giunti ad adottare oggi una prospettiva intersezionale, considerando che all’interno del proprio gruppo sociale siano presenti sottogruppi di persone che sono vittime di altri tipi di discriminazioni.

  • Sigla della locuzione “Diversity, Equity and Inclusion”, utilizzata sopratutto in campo aziendale per indicare politiche volte a valorizzare le diversità della forza-lavoro e a garantire pari opportunità di carriera ed equo trattamento economico sul luogo di lavoro.

  • Con questo termine si indica la possibilità generale di ogni singolo individuo di usufruire di qualsivoglia tipo di servizio: l’accessibilità non dipende tanto dalle caratteristiche dell’utente ma da come è stato progettato il servizio. La parola “accessibilità” è però più spesso legata, nel discorso comune, alla possibilità di fruizione dei servizi da parte di persone con vari tipi di limitazioni (dalla scarsa alfabetizzazione informatica nel caso di uso di servizi digitali, fino ad arrivare alle limitazioni cognitive, oppure fisiche) e disabilità. Molto spesso si parla di accessibilità principalmente in relazione all’abbattimento delle barriere architettoniche.

  • Con “discriminazione” si intende la disparità di trattamento, dal punto di vista relazionale, umano, normativo, sociale e politico, operata nei confronti di un individuo o di uno specifico gruppo di persone. Si parla di frequente, per esempio, di discriminazione di genere, cioè di un insieme di azioni negative nei confronti di un gruppo di persone accomunate dall’appartenenza a un genere specifico (a volte femminile, ma spesso coinvolge anche persone non-binary, transgender, etc...). In genere si può parlare di discriminazione solo quando a subire disparità di trattamento è il gruppo sociale subalterno, cioè non in una posizione di potere.

  • il termine indica un insieme di credenze, spesso formatesi in modo inconscio e senza una reale e approfondita conoscenza diretta, nei confronti di un individuo o di un gruppo di persone. Spesso queste credenze, a volte stereotipate, sono negative, e incidono sul nostro giudizio, comportamento e processo decisionale. Molto spesso il pregiudizio è alla base di approcci discriminatori, anche inconsapevoli, nei confronti di gruppi specifici di persone.

  • Questa formula, il cui significato letterale è “spazio sicuro”, viene usata per indicare un luogo dove persone appartenenti a gruppi sociali spesso oggetto di discriminazione o atti violenti, particolarmente in relazione alla comunità LGBTQIA+ e alle donne, sono accolte senza pregiudizi, senza conflitti né critiche, e con l’adozione di un approccio volto alla conoscenza e allo scambio, senza giudizio.

  • A lungo si è adottato il termine “minoranze” per fare riferimento a quei gruppi sociali “diversi” per etnia, religione, lingua, abilità, genere o orientamento sessuale e affettivo, secondo una concezione per la quale il “diverso”, ciò che esce dalla “norma”, è statisticamente meno diffuso, o comunque rappresenta un’eccezione. A oggi, con l’adozione di approcci che tendono a valorizzare l’eterogeneità degli individui nella società, si tendono a usare altri termini che escano dalla logica del “diverso” come eccezione. Uno di questi termini è per esempio “sotto-rappresentato”, che sottolinea come più che poche persone “diverse”, queste ultime siano meno rappresentate nella società, suggerendo che abbiano poca visibilità e poco potere.

  • Questo termine viene usato come traduzione del termine anglofono “gender”, impiegato per operare una distinzione tra il genere come costrutto sociale e il sesso (“sex”) biologico. Se il sesso biologico viene assegnato alla nascita, il genere non è definito da elementi biologici, ma culturali e sociali: si tratta di un insieme di ruoli, comportamenti e attributi, che fanno sì che una persona si identifichi o venga identificata da altre persone come donna, uomo, o altre categorie di genere. Il genere, cioè l’insieme delle suddette caratteristiche, così come la loro codifica in categorie definite, riconoscibili e identificabili, variano a seconda del contesto culturale, sociale e storico. Il genere, spesso considerato come un concetto binario (es: uomo, donna), è invece da considerarsi come uno spettro o un continuum nel quale si situano diverse categorie di genere: un individuo può anche definirsi non-binary, può per esempio identificarsi come transgender, oppure può percepirsi come fluido dal punto di vista del genere.

  • Il sesso (sex) biologico, distinto dal genere (gender), ha a che fare con il corpo, ed è assegnato alla nascita sulla base dell’identificazione dei caratteri sessuali primari. I caratteri sessuali servono a identificare gli individui come biologicamente donne o biologicamente uomini: questa distinzione binaria non tiene però conto delle persone intersessuali, che nascono con caratteri sessuali che non rientrano nelle tipiche nozioni binarie del corpo maschile o femminile, e che rendono impossibile ricondurre il sesso dell’individuo a quello maschile o femminile dal punto di vista strettamente biologico. L’intersessualità si può manifestare con diverse variazioni fisiche, e può essere evidente già alla nascita con la compresenza di caratteri sia maschili che femminili, sia durante la pubertà, con l’emergere di caratteri secondari di sesso diverso da quello assegnato alla nascita. Il sesso biologico è distinto dal genere, che non è biologico ed è invece un costrutto culturale, e che può da questo differire.

  • Quando si parla di identità di genere si parla della sensazione di appartenenza a un genere da parte dell’individuo. Essendo il genere un costrutto sociale, costituito anche dall’insieme di norme, comportamenti e ruoli adottati nei contesti sociali, può essere distinto dal sesso biologico e non coincidere con quest’ultimo. L’identità di genere (donna, uomo, e altre forme nello spettro del genere come la non binarietà o la transessualità) è da considerarsi fluida, flessibile e mutevole nel tempo (si parla infatti di persone genderfluid per esempio), e distinta dall’orientamento sessuale e affettivo dell’individuo, da cui è indipendente.

  • Con “orientamento sessuale” si fa riferimento all’attrazione sessuale che una persona prova nei confronti di altre categorie di persone, definite sulla base del loro genere di appartenenza. L’orientamento da sempre considerato più diffuso e prevalente, non senza le criticità che questa considerazione implica, è l’orientamento eterosessuale, cioè l’attrazione sessuale nei confronti di persone di sesso opposto al proprio. Altri orientamenti includono quello omosessuale, cioè nei confronti di persone del proprio stesso sesso, e la bisessualità, l’attrazione sessuale sia per persone del sesso opposto al proprio che per persone del proprio stesso sesso. La varietà e il carattere mutevole dell’orientamento sessuale rende difficile sia operare delle distinzioni nette tra i diversi orientamenti, sia concepire come immutabile e rigida nel tempo la risposta sessuale di un individuo: si tende quindi a definire la sessualità come uno spettro, con flessibilità. Con “orientamento affettivo” si fa riferimento all’attrazione affettiva e romantica che una persona prova nei confronti di altre categorie di persone, definite sulla base del loro di genere di appartenenza. Orientamento sessuale e affettivo possono non coincidere: una persona può definirsi eteroromantica anche se bisessuale, per esempio, e può quindi provare attrazione sessuale per persone del proprio stesso o di sesso opposto, ma può instaurare relazioni di tipo affettivo e romantico esclusivamente con persone di sesso opposto.

  • Questa sigla, di recente giunta a questa versione ampliata, ma esistente in forma ridotta (LGB) già dagli anni ’80 del ‘900 (e in seguito evolutasi, in una fase intermedia, in LGBT), è utilizzata per indicare l’interà comunità di persone non eterosessuali e non cisgender. L’acronimo identifica, nella maggior parte dei suoi usi, le seguenti categorie: lesbiche, gay, bisessuali, transessuali, queer, intersessuali, asessuali. A queste categorie si aggiunge anche il simbolo “+” per indicare l’apertura di questo acronimo ad altre categorie e ad altre sfumature di identità di genere o di orientamento sessuale non compresi nelle lettere già utilizzate. È da notare come l’utilizzo delle lettere possa indicare, a seconda del contesto e della comunità locale che se ne appropria, altre categorie di genere e orientamento: la “Q” di “queer”, termine ombrello della comunità LGBTQIA+, può indicare anche “questioning”, cioè coloro che ancora sono incerti riguardo alla definizione del proprio orientamento sessuale; la “A” di “asessuale” può indicare anche “aromantico” o “agender”.

  • Questa espressione può essere tradotta in italiano con “uguaglianza di genere”: se la parità di genere indica le rivendicazioni relative agli aspetti giuridici, in termini di diritti, politici e civili, l’uguaglianza di genere riguarda piuttosto le rivendicazioni relative alla propria appartenenza a un determinato genere, in relazione a ogni aspetto dello stare in società, e a ogni aspetto culturale. Quando si parla di gender equality si parla principalmente di rivendicazioni riguardanti il ruolo delle donne nella società: tra queste si includono i pari diritti, il trattamento equo sul luogo di lavoro, ma anche il discorso sul ruolo che a livello culturale le donne sono chiamate a rivestire nella società, il problema della violenza sulle donne, la rappresentazione socio-culturale delle donne nei media e molti altri aspetti.

  • L’espressione anglofona “gender balance” può essere tradotta in italiano come “equilibrio di genere”. Fa riferimento al bilanciamento tra uomini e donne (adottando un’ottica binaria) e quindi alla loro uguale (dal punto di vista numerico) presenza in diversi contesti. Viene usata spesso in riferimento a luoghi di lavoro, consigli di amministrazione di aziende, organi politici, e nella musica viene spesso usata per sottolineare l’attuale squilibrio di genere in vari ambiti (per esempio nelle line-up dei festival, nelle programmazioni di venue o rassegne, nelle classifiche o nei roster di label, distributori, editori e agenzie di booking, che vedono molto spesso una presenza più massiccia di uomini).

  • Tendenza a ridurre la molteplicità di identità di genere, che per via del loro carattere mutevole e non sempre netto vengono ricondotte alla dimensione di uno spettro più che a categorie distinte, a due sole categorie: maschio e femmina. Questo pensiero va spesso di pari passo e in concordanza con la teoria della coincidenza di sesso (biologico) e genere (come costrutto sociale), e con il rifiuto della carattere socialmente costruito del genere.

  • Espressione anglofona traducibile in italiano con “non binario / non binaria”: è relativa all’identità di genere. L’identità di genere assume la forma di uno spettro e di un continuum, e le persone che si definiscono “non-binary” non si riconoscono totalmente, nella propria identità di genere, né nel genere femminile né nel genere maschile, non sentendosi mai “sempre e completamente uomini” o “sempre e completamente donne”. L’espressione “non-binary” include sotto di sé, trattandosi di un termine ombrello, tutte quelle specifiche identità di genere che fuoriescono dai limiti imposti dal binarismo di genere, e quelle persone che esprimono il proprio genere e la propria identità di genere in modo variante rispetto ai tratti culturali binari di uomo e donna: si possono quindi per esempio definire non-binary le persone genderfluid, bigender, agender. Il non binarismo di genere mette in discussione e scardina le categorie di genere tradizionali, i ruoli di genere e i modelli di genere, aprendo nuovi spazi di identità e di espressione di genere.

  • Si definisce cisgender una persona la cui identità di genere coincide con il sesso biologico assegnato alla nascita: è il caso di una persona biologicamente donna, che si riconosce nell’identità di genere femminile, così come di una persona biologicamente uomo, che si riconosce nell’identità di genere maschile.

  • Nel linguaggio comune si definisce transgender una persona la cui identità di genere non coincide con il sesso biologico che le è stato assegnato alla nascita. Il termine “transgender” è in parte della comunità LGBTQIA+ usato come termine ombrello per indicare tutti quei casi in cui l’identità di genere differisca dal sesso biologico: in questa accezione, sotto questa macrocategoria troviamo anche le persone non-binary, che non si identificano completamente e con costanza né nel genere femminile né in quello maschile, ma anche le persone transgender binarie, cioè coloro che si identificano nel genere opposto rispetto al sesso biologico assegnato. Alcune persone transgender che abbiano deciso di intraprendere un percorso di transizione per adottare le caratteristiche sessuali del sesso biologico opposto possono definirsi usando la parola “transessuale”, sempre da concepirsi come termine incluso sotto l’ombrello del concetto di “transgender”. In generale, nel mondo anglofono è accettata la forma “trans*” con l’asterisco, per includere con la massima apertura tutte le identità di genere che differiscono da quella cisgender. In italiano è da preferirsi invece la forma estesa “transgender”: la forma abbreviata è da evitarsi perché talvolta usata in senso dispregiativo.

  • Questo termine viene utilizzato per indicare una serie di comportamenti e di atteggiamenti discriminatori o dispregiativi nei confronti di persone appartenenti a una determinata categoria di genere. È più di frequente usato per indicare un pensiero, un insieme di atteggiamenti culturali e un habitus di comportamenti da parte degli uomini nei confronti delle donne. Il sessismo maschile nei confronti delle donne si poggia sulla convinzione che le donne siano inferiori agli uomini (da un punto di vista biologico, prima di tutto, ma anche sociale), e questa convinzione si esprime spesso attraverso i media e il linguaggio, che dipingono la donna in modo stereotipato, ma anche attraverso comportamenti molesti, fortemente misogini o violenti.

  • Questo termine indica un’azione o un comportamento, verbale o fisico, che crea disagio nella persona a cui è rivolto. In senso lato la molestia è quindi qualsiasi tipo di comportamento lesivo dei diritti altrui, in senso aspecifico: fanno parte della categoria “molestie” tutte le azioni di disturbo e di fastidio, dalle forme più lievi alle forme più gravi e violente. Si può trattare di intimidazione, di offesa, di una vera e propria aggressione o di fenomeni di bullismo. Molto spesso, e nel linguaggio comune si usa spesso in relazione alla sfera sessuale o a una motivazione sessista o discriminatoria, la molestia muove da questioni che hanno a che fare con il genere di appartenenza della persona a cui è indirizzata la molestia: si può trattare di una donna o di una persona non-cisgender. Possono essere vittime di harassment e molestia anche persone non eterosessuali, o persone che presentano dei tratti di “diversità” a prescindere dallo sfondo sessuale della molestia.

  • Come già notato, per riuscire a comunicare con un pubblico ampio, è necessario prestare attenzione a come si usa il linguaggio: questo aspetto passa anche per il tentativo di contrastare quello che viene chiamato “maschile neutro” o “maschile sovraesteso”, cioè l’uso della forma maschile, singolare o plurale, per indicare la totalità delle identità di genere (inclusa quella femminile). È più corretto invece, per evitare un uso escludente del linguaggio, declinare secondo i diversi generi, femminile e neutro (applicabile alle identità di genere non binarie), ogni sostantivo e aggettivo usati. Per esempio si può partire dal declinare al femminile tutti quei termini che, particolarmente nella sfera lavorativa, pertengono tradizionalmente alla sfera maschile: avvocato diventa avvocata, assessore diventa assessora, e così via. Ciò significa anche, quando si usi il plurale, esplicitare sia il genere maschile sia il genere femminile (per esempio: “i produttori, le produttrici”). Per introdurre invece la neutralità della lingua, ci sono due vie: una prevede, dove possibile, che si usino termini non legati al genere (come per esempio “persone” o “individui”); l’altra prevede che si usi un simbolo convenzionale che esprima la neutralità di genere. Tra i simboli convenzionali si sono diffusi asterisco, schwa e u.

  • È un termine derivato dal contesto medico-diagnostico, e caratterizza, secondo l’OMS (1980), “l’esteriorizzazione di una condizione patologica”, da un punto di vista esclusivamente biomedico. La menomazione riguarda un danno creato da un qualsiasi problema di salute che abbia impatto su corpo o psiche, rendendolo “anomalo” rispetto a un corpo sano (per l’OMS -1980- si tratta di una “deviazione dalla norma sul piano biomedico dell’individuo”). Si tratta per esempio di un deficit cognitivo, sensoriale o motorio, come la sordità, la cecità, il malfunzionamento di un arto. L’OMS (1980) definisce la menomazione come “qualsiasi perdita o anomalia di una struttura o di una funzione, sul piano anatomico, fisiologico e psicologico. (...) è caratterizzata dall’esistenza od occorrenza di anomalia, difetto o perdita (che può essere temporanea o permanente) di un arto, organo o tessuto o altra struttura del corpo, o di un difetto di un sistema, funzione o meccanismo del corpo, compreso il sistema delle funzioni mentali”. Il termine “menomazione” indica il fatto di essere “meno” rispetto a una “norma”, dove la norma è in questo caso il corpo (e la psiche) pienamente abile, o l’”integrità” di questo. Sebbene la distinzione tra “menomazione”, “disabilità” e “handicap” sia utile nella comprensione dei concetti e delle sfumature di significato dei termini che ruotano intorno al tema della disabilità, è in parte superata nel linguaggio comune dal punto di vista strettamente lessicale, e anche dall’OMS nelle sue linee guida.

  • È la condizione in cui può trovarsi la persona che subisce una menomazione, e che a causa di questa si trova a far fronte a una limitazione, a volte totale, della capacità di svolgere un’azione nel modo in cui potrebbe svolgerla una persona con un corpo e una psiche “normali”. Si tratta per esempio dell’impossibilità di camminare per una persona affetta da paraplegia, dell’incapacità di lavarsi i denti per una persona che ha affrontato un ictus e non ha recuperato la funzionalità della mano prevalente, o dell’impossibilità di leggere un libro cartaceo per una persona non vedente. La disabilità, a seconda del tipo di menomazione che la causa, può essere permanente o temporanea, può peggiorare o regredire nel tempo. Questa concezione della disabilità come legata all’individuo e alla sua condizione psico-fisica singola e specifica è quella sempre relativa al modello biomedico, adottata dall’OMS (1980). È necessario sottolineare come, soprattutto attraverso attivismo, sensibilizzazione e ricerca, particolarmente svolta nel campo dei disability studies a livello internazionale, esista anche una concezione sociale della disabilità, come questione da affrontare non solamente da un punto di vista medico, ma anche e soprattutto da una prospettiva politica e sociale, prevalentemente collettiva. Fondamentale è stato l’intervento dell’UPIAS, la Union of the Physically Impaired Against Segregation, che ha contrapposto al modello biomedico dell’OMS (1980) il modello sociale della disabilità. Il modello sociale definisce la disabilità “lo svantaggio o la restrizione di attività causati da un’organizzazione sociale contemporanea che tiene in conto poco o per nulla le persone che hanno impedimenti fisici e perciò le esclude dalla partecipazione alle normali attività sociali”. In questo senso la disabilità non sarebbe un elemento biomedico di pertinenza del singolo individuo, ma la condizione imposta dalla società in cui la persona con un deficit di tipo fisico (o psicologico) di trova a vivere. La conseguenza della concezione della disabilità secondo il modello sociale è una necessaria ridefinizione delle pratiche sociali, culturali e politiche con cui la società si rapporta alle persone disabili: la responsabilità della disabilità non è a carico dell’individuo ma delle istituzioni sociali. L’individuo adatta quindi le modalità di svolgimento delle proprie attività personali a seconda delle proprie abilità fisiche o psicologiche (si veda anche l’ICF, pubblicato dall’OMS nel 2001 a tale riguardo, dove si ha una ridefinizione del concetto di disabilità), ma incontra barriere fisiche, culturali e sociali a causa delle decisioni delle istituzioni, della mentalità del proprio tempo, dell’organizzazione sociale. I concetti stessi di “menomazione” e “disabilità” sarebbero quindi dei costrutti sociali, e l’insieme di atteggiamenti e comportamenti nei confronti di persone disabili sarebbe culturalmente, storicamente e socialmente determinato. Per fare un esempio concreto: una persona con disabilità che utilizza la sedia a rotelle per muoversi nella propria abitazione può non incontrare nessun tipo di limitazione al pieno svolgimento delle proprie attività quotidiane, ma può, nonostante si muova in sedia a rotelle esattamente come nella propria abitazione, incontrare ostacoli fisici negli spazi pubblici che le impediscono di muoversi liberamente. Allo stesso modo, oltre agli ostacoli fisici, una persona con disabilità incontra atteggiamenti di discriminazione - vedi la definizione di “abilismo” -, socialmente e culturalmente determinati, che le impediscono l’accesso a gruppi sociali e a professioni. Grazie ad attivismo, ricerche e studi, l’OMS nel 2001 ha pubblicato la nuova “Classificazione internazionale del funzionamento della disabilità e della salute (ICF)”, arrivando a formulare un modello “biopsicosociale” in cui il modello medico è integrato al modello sociale della disabilità, qui definita come “una condizione di salute in un ambiente sfavorevole”, mettendo quindi in relazione gli aspetti medici relativi alla salute dell’individuo e la responsabilità dell’ambiente (sociale) sulle sue condizioni di vita nella società.

  • L’handicap è, secondo la definizione dell’OMS (1980), la “situazione di svantaggio sociale, conseguente a menomazione e/o disabilità, che limita o impedisce l’adempimento di un ruolo normale per un dato individuo in funzione di età, sesso e fattori culturali e sociali”. Si tratterebbe quindi della “socializzazione” della menomazione per come definita dall’OMS, cioè delle conseguenze (svantaggio sociale) che pesano su una persona con disabilità quando viene inserita in un gruppo sociale, rispetto al quale si trova, per via della sua “deviazione dalla norma”, svantaggiato, in posizione di inferiorità. Se questa concezione del termine “handicap” sembra, a un primo sguardo, mettere in relazione la disabilità con la società, in realtà rafforza l’idea della persona con disabilità come “diversa” e “inferiore”, senza che si consideri la responsabilità che la società ha nei confronti della gestione della disabilità, riconducendola invece alla “menomazione” della persona. A partire dal 1999, l’OMS rivede la definizione di “handicap”, fino a eliminare questo concetto dal suo più recente documento “Classificazione internazionale del funzionamento della disabilità e della salute (ICF)” (2001), che integra il modello medico a quello sociale. Non è più quindi tecnicamente corretto, anche basandosi sulle più recenti linee guida dell’OMS, parlare di “handicap” o tanto meno di persone “handicappate” per riferirsi a persone disabili: questi termini sono rimasti in uso nel linguaggio comune in modo a-critico, ma sono spesso stati usati in modo dispregiativo e con fini discriminatori.

  • Con queste espressioni si indicano due modelli contrapposti secondo i quali vengono progettati spazi, infrastrutture, oggetti, utensili, siti web e applicazioni, e più o meno tutto quello che ci circonda. La prima espressione, “One size fits all”, è relativa al modello della “taglia unica”: si progetta tenendo in considerazione un utente medio, un utente “normale”, che non ha esigenze specifiche o limitazioni particolari. Al contrario, “Design for all”, “Inclusive design” e “Universal design” sono espressioni che indicano modalità di progettazione che invece di progettare per un utente “standard”, che nel concreto non esiste nella realtà, tengono in considerazione la maggior quantità possibile di variabili e di esigenze e di limitazioni individuali, cercando di produrre un output che risponda a tutte queste variabili, esigenze e limitazioni individuali, cioè un prodotto, spazio, mezzo o edificio che sia universale e possa essere fruito da ogni singola persona. Il Design for All, come si legge nella Dichiarazione di Stoccolma del 2004 di DfA-EIDD, è “il design per la diversità umana, l'inclusione sociale e l’uguaglianza”. L’adozione di questo modello implica la considerazione, proprio in fase di progettazione, di vari elementi, tenendo conto della molteplicità di esigenze e necessità degli esseri umani. Questi i 7 principi dello Universal Design:

    1) Equità - uso equo: utilizzabile da chiunque

    2) Flessibilità - uso flessibile: si adatta a diverse abilità

    3) Semplicità - uso semplice ed intuitivo: l'uso è facile da capire

    4) Percettibilità - il trasmettere le effettive informazioni sensoriali.

    5) Tolleranza all'errore - minimizzare i rischi o azioni non volute

    6) Contenimento dello sforzo fisico - utilizzo con minima fatica

    7) Misure e spazi sufficienti - rendere lo spazio idoneo per l'accesso e l'uso Questi principi, concepiti inizialmente nell’ambito del design di spazi e prodotti, possono essere estesi anche in senso astratto a qualsiasi ambito di progettazione, immaginando di rendere ogni prodotto o servizio, tra cui anche gli eventi dal vivo, o i siti web attraverso i quali reperire informazioni sugli eventi dal vivo, fruibile per il più alto numero possibile di utenti.

  • Come con l’evolversi della nostra società e con lo sviluppo di una maggiore sensibilità rispetto a ogni tipo di caratteristica particolare degli esseri umani si è arrivati a dismettere il termine “handicap”, così si preferisce parlare di “persone con disabilità” rispetto all’utilizzo della formula “persone disabili”. Questa preferenza è motivata dal fatto che nel caso di “persona con disabilità” si sta considerando la condizione di disabilità solo un attributo, una tra le molte caratteristiche che fanno parte dell’identità della persona. Nel caso di “persona disabile” si tende invece a far prevalere la disabilità come tratto distintivo della persona, eliminando altre caratteristiche fondamentali della sua identità al di fuori della condizione di disabilità. C’è però da considerare l’esistenza di alcuni casi particolari: l’uso dell’espressione “persona disabile” può essere legato a un uso politico e a una rivendicazione del termine come centrale nella propria identità e nella conseguente lotta sociale a questa legata. L’esempio più calzante viene dall’area anglosassone, in cui l’attivismo disabile è di matrice neomarxista: gli attivisti preferiscono farsi chiamare “disabled people” e non “people with disabilities” perché “disabled”, riferito a “people”, ha il significato di persone “dis-abilitate”, rese non-abili da una società che discrimina chi ha delle disabilità (con un rapporto che lega causalmente l’organizzazione sociale e l’esperienza di discriminazione delle persone disabili).

  • Se è vero che entrambe le espressioni sono usate comunemente, mostrano sfumature leggermente diverse e pro e contro dei rispettivi utilizzi. L’espressione “diversamente abile” è stata introdotta per riconoscere pari dignità alle modalità con cui persone con disabilità svolgono le azioni del quotidiano, e per valorizzare la varietà di modalità con cui è possibile agire, anche tramite ausili o comunque in modo non canonico rispetto a quello che è la “norma” delle persone “abili”. Questa attenzione per la diversa abilità si nota anche nella pubblicazione dell’OMS del 2001, che inquadra la disabilità come modalità alternativa, diversa, ma ugualmente valida, di svolgere le azioni del quotidiano. Sebbene questa espressione sdogani il concetto secondo il quale siamo tutt* divers* e ugualmente valid*, da un punto di vista politico può risultare problematica. Chiamare la disabilità con il suo nome proprio serve a riconoscere le persone disabili come tali, senza che l’uso del termine “disabile” abbia una connotazione negativa, e a esprimere anche, con il semplice uso della parola “disabile”, un insieme di problematiche, tra cui i bisogni socio-assistenziali dei disabili gravi, così come il costo insostenibile delle cure mediche, la mancanza di servizi efficaci di collocamento mirato per il lavoro, che hanno bisogno di essere riconosciute. Parlare di “persone disabili” invece che di “persone diversamente abili” serve anche a non cancellare questi problemi e le discriminazioni di cui queste persone sono spesso vittime, mentre al contrario l’uso di “persone diversamente abili” può tendere a far credere che a un’attenzione lessicale corrisponda una perfetta integrazione sociale e culturale che oggi ancora non è stata raggiunta.

  • Si definisce tale ogni discriminazione legata alla disabilità. Esistono diversi tipi di abilismo, legati a concezioni stereotipate delle persone con disabilità. Ci sono discriminazioni “pratiche”, che avvengono a scuola, sul luogo di lavoro, sui mezzi pubblici, con l’impossibilità di godere degli stessi servizi delle persone “normali”; ci sono le discriminazioni che sfociano in offese, con l’uso di termini non più usati nel linguaggio comune o usati solo all’interno della comunità delle persone disabili (es: “handicappato”, “cerebroleso”, “104” e molti altri); ci sono anche le discriminazioni puramente culturali. Un fenomeno molto frequente, spesso ingenuo (cioè che si diffonde per mancanza di consapevolezza sul tema, a partire da un’idea svilente e discriminatoria) è quello dell’infantilizzazione delle persone con disabilità, rappresentazione che si trova spesso nei media (particolarmente in televisione). La persona disabile è spesso trattata diversamente dai suoi pari “normali”, particolarmente quando la sua disabilità è evidente (quando per esempio la persona ha necessità di un ausilio per la mobilità, come la sedia a rotelle - spesso erroneamente chiamata “carrozzina”, come quella dei neonati). Alla persona disabile vengono rivolti nomignoli e vezzeggiativi, inutili attenzioni, che hanno come risultato quello di sminuirla e di negarne la sua capacità di autodeterminarsi e la sua dignità. Vicina a questa visione c’è quella della persona disabile come necessariamente buona, solo in quanto disabile. In alternativa, o a volte accompagnata all’infantilizzazione, esiste la retorica dell’eroe che circonda le persone disabili: solo per il fatto di esistere e stare al mondo, e vivere la propria quotidianità convivendo con la/le disabilità, le persone disabili vengono definite coraggiose. Il messaggio implicito che sta a monte di questa rappresentazione delle persone disabili, e che contribuisce a rafforzarla nel discorso comune, è che ci vuole coraggio per vivere da persone disabili, ci vuole coraggio per mostrarsi al mondo, come se le disabilità fossero aspetti per i quali provare vergogna.

  • Si è in precedenza definita l’accessibilità come la possibilità generale di ogni singolo individuo di usufruire di qualsivoglia tipo di servizio. Se questa può essere adottata come definizione generale del termine, è necessaria una specifica per quanto riguarda l’accessibilità legata alle disabilità. Si parla di accessibilità in relazione alle disabilità quando ciò che impedisce a un utente di usufruire di un servizio è una condizione (dell’individuo) considerata “particolare” o “eccezionale”, come la sordità, la cecità o le difficoltà motorie. Come si è sottolineato in precedenza, a questa visione della disabilità come condizione particolare deve essere preferita, nella progettazione dei servizi, quella di un’eventuale limitazione della capacità che può riguardare chiunque (si pensi per esempio a chi si trova a dover utilizzare un ausilio come le stampelle per una semplice e temporanea distorsione alla caviglia). Questa concezione di disabilità come punto di partenza per la progettazione di servizi, prodotti e spazi, fatica ad affermarsi, e invece quindi di adottare la modalità del design inclusivo e funzionale (“design for all”), si va nella direzione di progettare per un utente medio per poi considerare i casi “specifici” posti dai bisogni “speciali” delle persone con diversi tipi di disabilità. Il più eclatante, e di cui si parla più spesso, è quello dell’accessibilità fisica a strutture o eventi. È necessario per esempio che venue, locali e festival siano dotati di rampe per l’accesso anche in sedia a rotelle, ascensori o rampe con scarsa pendenza nel caso in cui ci siano edifici a più piani, montascale, ma anche rampe per accedere al palco in sedia a rotelle (esistono artisti disabili!). Le necessità motorie non sono le uniche a cui dover rispondere: l’accessibilità riguarda anche le disabilità cognitive e intellettive, così come le persone neurodivergenti, per esempio affette da disturbo dello spettro autistico: potrebbe essere utile prevedere eventi con stimolazione sensoriale ridotta (riduzione del volume, riduzione dell’uso delle luci...) o con stanze di “decompressione” per evitare il sovraccarico da sovrastimolazione. È necessario ragionare anche su come rendere accessibile un evento musicale a persone sorde, o cieche: ogni tipo di disabilità deve essere presa in considerazione quando si progetta un evento, nell’ottica non di rispondere a necessità specifiche o “particolari”, ma in quella di rendere l’evento accessibile a tutt*.

  • Concetto a oggi superato, ma ancora presente nel discorso comune e nel discorso pubblico e politico, è nato nel ‘700 per operare raggruppamenti e ordinamenti tipologici, di carattere puramente arbitrario e artificiale, tra gli esseri umani, sulla base di caratteristiche fisiche comuni. Per esempio, per considerare l’appartenenza razziale di un individuo, venivano considerate caratteristiche somatiche come colore della pelle, tipo di capelli, forma degli occhi: la razza sarebbe da considerarsi quindi dal punto di vista puramente fisico, indipendentemente da elementi culturali, come la nazionalità e i costumi. Dalla “Dichiarazione sulla razza” dell’UNESCO (1950): “il termine "razza" indica un gruppo umano caratterizzato da alcune concentrazioni, relative a frequenza e distribuzione, di particelle ereditarie (geni) o caratteri fisici, che appaiono, oscillano, e spesso scompaiono nel corso del tempo a causa dell'isolamento geografico”. Si è successivamente giunti a una definizione evoluta del concetto di razza, che prende in considerazione anche elementi quali la distribuzione geografica delle caratteristiche morfologiche, e in tempi moderni, le caratteristiche genetiche. È stato dimostrato che il concetto di razza, basato su elementi fisici e genetici, non ha fondamento scientifico: dal punto di vista biologico non c’è nessuna distinzione netta tra i diversi gruppi di individui di una stessa specie, e le differenze a livello esteriore (colore della pelle, tipo di capelli, forma degli occhi) non trovano una corrispondenza a livello genetico. Le variazioni genetiche esistono all’interno del macro-gruppo degli esseri umani, ma non sono indicative dei tratti somatici e morfologici che sarebbero alla base delle distinzioni tra “razze”. Nel considerare il concetto di “razza” è quindi preferibile adottare una prospettiva etno-antropologica, in cui questo termine e il suo significato vengono studiati attraverso una lente critica, che privilegia lo studio delle dinamiche che le distinzioni artificiali tra “razze” hanno creato nella società.

  • A differenza della razza, termine e operazione di tracciare i limiti in modo discreto all’interno del continuum della specie umana sulla base di elementi fisici, l’etnia è invece definita prendendo in considerazione anche elementi storico-culturali e linguistici, oltre alle caratteristiche fisiche. Il significato del termine “etnia” tende comunque a sottointendere che sia possibile classificare in categorie distinte gli esseri umani sulla base di criteri predefiniti: questa posizione è stata messa in discussione dall’antropologia contemporanea, che oltre a considerare gli elementi culturali che caratterizzano un’etnia (per esempio l’esistenza di una identità storica e sociale comune all’interno di un gruppo di persone), considera anche la percezione di appartenenza degli individui a un gruppo sociale e culturale e la loro tendenza a considerarsi diversi da altri gruppi etnici, grazie a codici simbolici e sociali condivisi e diversi da altri gruppi a essi contrapposti. Fanno parte degli elementi che caratterizzano un gruppo etnico la cultura, la storia, la lingua, spesso anche un territorio, o la religione. Diversi studiosi hanno sottolineato anche l’importanza, nella costituzione di un gruppo etnico, di processi storici e politici, che spesso sono intervenuti a rafforzare il grado di appartenenza interno a gruppi etnici differenti, a volte in contrapposizione, anche politica, ad altri. Molto spesso nel linguaggio comune il termine “etnia” è stato sostituto a “razza” ma utilizzato nell’accezione di quest’ultima parola. Un esempio è quando si parla di “etnia caucasica”: si sta in questo caso facendo riferimento a una categorizzazione storicamente e scientificamente obsoleta, secondo la quale esisterebbero dei gruppi razziali principali e originari (tra cui appunto il gruppo caucasoide).

  • Si tratta di qualsiasi atto di discriminazione ai danni di singole persone o di interi gruppi di persone sulla base della loro appartenenza etnica. Le discriminazioni basate sull’appartenenza a un determinato gruppo etnico (o religioso) sono fortemente legate alle teorie emerse a fine ‘800 secondo le quali alcuni popoli sarebbero inferiori ad altri solo per via della loro appartenenza etnica, che farebbe sì che il semplice mostrare alcuni tratti fisici distintivi (come osservato la definizione di “razza” prevedeva che la specie umana venisse divisa in gruppi discreti solo sulla base di caratteristiche come il colore della pelle e la forma degli occhi) sia indizio di determinate caratteristiche psicologiche, intellettuali o morali. Secondo i suprematisti bianchi, i neri sarebbero intellettualmente inferiori; lo stesso veniva detto dai nazisti degli ebrei, che sarebbero inferiori anche a livello morale. Teorie razziste hanno portato anche a violente persecuzioni di gruppi etnici. Una chiara presa di posizione riguardo a qualsiasi teoria di superiorità razziale è stata la “Dichiarazione sulla razza” dell’UNESCO (1950), che afferma: “In base alle conoscenze attuali non vi è alcuna prova che i gruppi dell'umanità differiscano nelle loro caratteristiche mentali innate, riguardo all'intelligenza o al comportamento”.

  • Si tratta di diversi acronomi o parole specifiche usate in ambito anglosassone o nella lingua italiana per indicare persone non-bianche. Ognuna di queste formule ha un diverso portato identitario (non-bianco non significa necessariamente “ner*”, che ha invece una connotazione specifica e delle implicazioni particolari.

    “PoC” sta per “People (o Person) Of Colour”: è qualsiasi persona che si riconosca come non-bianca. Sta quindi a indicare non solo persone nere, ma anche di altre etnie, come quella latino-americana, o di qualsiasi altra appartenenza etnica che sia definita tra le altre cose dal colore della pelle non-bianco.

    “BIPoC” sta per “Black, Indigenous, People (o Person) Of Colour”: rispetto all’acronimo precedente, si è sentita l’esigenza, particolarmente con l’insorgere del movimento Black Lives Matter in seguito all’uccisione di George Floyd, di includere anche la comunità Black nella formula, per evidenziare come l’esperienza di discriminazione delle persone nere sia unica e non totalmente equivalente e sovrapponibile a quella delle persone di colore non-bianco. Oltre alla dicitura “Black” è stato aggiunto anche “Indigenous”, per sottolineare, essendo la formula nata in contesto USA, l’unicità della storia dei nativi americani.

    “Black” è un termine anglofono utilizzato per definire la comunità nera. È una parola che è stata storicamente al centro delle rivendicazioni dei movimenti civili americani antirazzisti, e, come spesso accade all’interno di gruppi sociali subalterni, è stata sottolineata e usata in chiave emancipatoria, acquisendo valore di identificazione collettiva. Con il termine “black” si fa riferimento non a una “razza” o a una qualità originaria, quanto più all’esperienza condivisa derivante dal colore della pelle (tipicamente proprio delle persone afrodiscendenti, diverso dal colore delle persone latinoamericane) e alle conseguenti discriminazioni da questo derivanti. “Black” è oggi tendenzialmente preferito, per indicare persone afrodiscendenti, al termine “colored”, che comprende invece come osservato tutte le persone non-bianche, tendendo a eliminare l’esperienza particolare della comunità black e in un certo senso cancellandola, assimilandola a quella di altre comunità di persone non-bianche. Il termine “colored” è inoltre stato usato in modo dispregiativo in vari contesti storici legati alla segregazione razziale, e ha quindi assunto una connotazione negativa (è da preferirsi la locuzione “person of color”).

    “Ner*” in italiano, è l’equivalente di “black”: ancora una volta viene usato per indicare la particolare esperienza di discriminazione delle persone afrodiscendenti e connotarle rispetto a quelle di altre persone non-bianche. È sempre da usare come aggettivo, in relazione a un sostantivo (“persona”, “donna”, “uomo”...). Anche sulla scia dei movimenti civili nati negli USA, e grazie a una maggiore consapevolezza nell’utilizzo del lessico, il termine ha finito per sostituire nel linguaggio comune lo slur razzista ancora diffuso in Italia negli anni ’90 e di cui si trovano diverse occorrenze anche in alcuni brani musicali (si veda per esempio “Colpa d’Alfredo” di Vasco Rossi). Viene utilizzata in italiano anche la formula “persona di colore”, che spesso viene usata in modo indiscriminato accomunando tra loro tutte le persone non-bianche, tendendo quindi a replicare il meccanismo di separazione a livello sociale tra bianco e non-bianco, ed elidendo ogni varietà di identità etnica e di comunità dal discorso comune.

    1) Equità - uso equo: utilizzabile da chiunque

    2) Flessibilità - uso flessibile: si adatta a diverse abilità

    3) Semplicità - uso semplice ed intuitivo: l'uso è facile da capire

    4) Percettibilità - il trasmettere le effettive informazioni sensoriali.

    5) Tolleranza all'errore - minimizzare i rischi o azioni non volute

    6) Contenimento dello sforzo fisico - utilizzo con minima fatica

    7) Misure e spazi sufficienti - rendere lo spazio idoneo per l'accesso e l'uso Questi principi, concepiti inizialmente nell’ambito del design di spazi e prodotti, possono essere estesi anche in senso astratto a qualsiasi ambito di progettazione, immaginando di rendere ogni prodotto o servizio, tra cui anche gli eventi dal vivo, o i siti web attraverso i quali reperire informazioni sugli eventi dal vivo, fruibile per il più alto numero possibile di utenti.

  • Termine usato per indicare quelle persone che, pur vivendo al di fuori del continente africano, ne sono originarie (cioè hanno antenati africani). Questa parola indica sia coloro che furono deportati negli Stati Uniti come schiavi, sia coloro che emigrarono in altri continenti nel corso dei secoli. Si parla di una vera e propria diaspora africana, costituita da movimenti migratori, di dispersione e di migrazione forzata per schiavismo, che coinvolsero milioni e milioni di persone. I paesi particolarmente toccati dall’immigrazione africana sono gli USA, ma anche i paesi del Sudamerica, così come diversi stati del medioriente: da qui i termini “afroamericano”, che indica persone di nazionalità statunitense discendenti da africani, “afrolatinoamericano”, per indicare persone originarie dell’Africa o discendenti di africani ma che vivono in America centrale o Sud America, e “afroarabo”, che indica sia discendenti africani che vivono nei paesi arabi, sia comunità arabe in diversi stati africani.

  • Con questa espressione, che può fare riferimento a due diversi termini (“immigrati di seconda generazione” e “italiani di seconda generazione”, dove la seconda è preferibile perché più corretta), si indicano sia i figli nati su territorio italiano, di coloro che siano immigrati in Italia, sia i figli, nati all’estero e immigrati in Italia con la propria famiglia in giovane età (tendenzialmente prima del compimento dei 18 anni). Gli italiani di seconda generazione si trovano ad affrontare diversi problemi, primo tra tutti quello della difficoltà nell’ottenimento della cittadinanza italiana, oltre a una maggiore complessità dello sviluppo del proprio senso di appartenenza e di identità culturale e linguistica.

  • Con questa parola si indica una forma di razzismo, e nello specifico il processo che porta a sviluppare pensieri e convinzioni razziste, “razzializzando” gli individui, ovvero osservandoli e giudicandoli sulla base di un costrutto puramente ideologico (senza fondamento scientifico): la “razza”. La razzializzazione è il processo attraverso il quale, a partire da marcatori “biologici” (come il colore della pelle), si fanno assunzioni di tipo morale, intellettuale, ideologico, estendendoli dall’individuo all’intera categoria di persone accomunate dallo stesso marcatore. Si tratta di un processo che può essere individuale o collettivo, ma sempre caratterizzato dal suo reggersi su forti radici sistemiche, che si trovano nelle istituzioni sociali contemporanee e nella collettività. La razzializzazione è caratterizzata dal fatto che l’individuo la subisce, senza aver richiesto di essere considerato sulla base della propria “razza”, e che questa ottica “razziale” in cui viene inserito è sempre volta a attuare su di lui un processo denigratorio o di esclusione sistematica da istituzioni, gruppi sociali o società nella sua interezza. Chi attua questo processo, che sia un individuo o un gruppo, lo fa sempre a partire da una posizione di potere, appoggiandosi, come già sottolineato, a strutture sociali già esistenti, al fine di mantenere la propria posizione di potere e marginalizzare l’individuo razzializzato, che viene, all’interno di questo processo, deumanizzato e spogliato delle proprie caratteristiche che non hanno a che vedere con l’ottica “razziale”. La razzializzazione si basa sulla credenza nell’esistenza delle razze, costrutto sociale artificiale, creato per giustificare oppressione ed esclusione e legittimare ideologicamente la marginalizzazione di interi gruppi sociali. Spesso alla razzializzazione si accompagna la sua elisione: il processo di razzializzazione viene occultato grazie alla cosiddetta “colourblindness”, cioè il processo altrettanto artificiale di cancellazione delle differenze etniche (e delle relative disuguaglianze).

  • È una specifica forma di razzismo che si basa esclusivamente sul colore della pelle. A subire discriminazioni, all’interno della società occidentale costruita a misura di persone dalla pelle bianca, che detengono il potere politico e culturale, sono tutti coloro che non hanno la pelle bianca. All’interno del grande insieme di persone non-bianche esistono però persone che subiscono discriminazioni più forti perché la loro pelle è più scura di quella di altre persone non-bianche. Le convinzioni negative associate alla gradazione cromatica più scura di pelle sono talmente radicate nel pensiero (razzista) occidentale da creare differenze nel grado di discriminazione subita anche all’interno dello stesso gruppo subalterno. Per fare esempi concreti, una persona afrodiscendente con la pelle molto scura subirà probabilmente maggiori discriminazioni rispetto a una persona afrodiscendente con la pelle più chiara. Questo tipo di discriminazione si riflette anche nei modelli culturali (tra le personalità più influenti della comunità black troviamo esempi più numerosi di persone con la pelle più chiara, tra cui per esempio Beyoncé) e nei prodotti in vendita (si pensi per esempio ai fondotinta, di cui è spesso difficile trovare tonalità più scure).

Il Glossario de Il Concerto che Vorrei è realizzato con il contributo di